questo sito e di parte

venerdì 28 marzo 2008

4 aprile iniziativa pubblica sulla legge 194

lettera aperta alla senatrice Montalcini

Lettera aperta alla Senatrice Rita Levi Montalcini

SIAMO UN GRUPPO DI RICERCATORI (1). Le scriviamo questa lettera con il massimo rispetto e gratitudine per tutto quello che lei ha fatto e continua a fare per la ricerca in Italia. Apprezziamo tutte le dichiarazioni d’intenti dei passati governi e dell’attuale: più soldi per la ricerca, procedure di concorso trasparenti, ed altro ancora. Ma tutto ciò non è mai andato oltre le semplici parole.
Professoressa, in Italia ci sono 60.000 ricercatori universitari con un contratto di lavoro temporaneo! Non è un “fenomeno marginale” – noi rappresentiamo il 50% della forza lavoro universitaria.
Sfortunatamente la situazione non è migliore negli istituti di ricerca. Noi svolgiamo il lavoro di ricerca, teniamo corsi, supervisioniamo laureandi, pubblichiamo articoli, partecipiamo a convegni e scriviamo progetti di ricerca per la richiesta di fondi (nei quali il nostro nome neanche compare).
Noi lavoriamo almeno quanto un ricercatore a tempo indeterminato, ma senza avere gli stessi diritti. In Italia ci sono pochi concorsi su scala nazionale e, quel che è peggio, essi spesso diventano delle farse: il nome del vincitore è noto anche prima della pubblicazione del bando! La parola meritocrazia in Italia è una parola vuota, raramente applicata nella realtà. Le rapide carriere universitarie sono per i pochi scelti o per i discendenti di famiglie tradizionalmente inserite nell’università. Tutti sanno che migliorare le proprie abilità garantisce buone opportunità, ma queste opportunità non sono per tutti secondo i loro meriti. E la situazione è anche peggiore per le donne.
Così come lavoriamo duramente per sconfiggere il cancro, scoprire nuove molecole e geni, sviluppare nuovo software, sostenere una cultura in costante evoluzione e scoprire nuove forme di apprendimento e insegnamento, ricordiamo anche che il raggiungimento di questi obiettivi è in parte dovuto al lavoro dei ricercatori universitari precari, che hanno lavorato per anni sperando infine di ottenere un posto che permettesse loro una maggiore stabilità economica e libertà.
I ricercatori universitari precari non sono liberi. Essi devono scendere a compromessi o i loro contratti non saranno rinnovati; devono ritirarsi dai concorsi per lasciar spazio a chi è stato “scelto”; devono accettare che i loro risultati siano pubblicati senza che il loro nome sia presente nella lista degli autori. Fanno tutto questo per sopravvivere. Saremo una generazione di pensionati senza pensione. Allora, forse, lo Stato si prenderà cura di noi. Per molti anni, molte persone (e molti governi) si sono dimenticati di noi. Ricercatori che hanno adesso 35, 40, 45 anni continuano ad avere contratti temporanei e possono ora essere troppo anziani per ottenere un contratto a tempo indeterminato come ricercatore universitario. Molti tra noi hanno avuto contratti temporanei per 10 o 15 anni; hanno avuto molti tipi diversi di contratto a breve termine ed il loro lavoro è stato valutato ogni anno prima che il contratto venisse rinnovato. Ci chiediamo quanto ancora dobbiamo resistere prima di essere considerati idonei per un contratto a tempo indeterminato.
Professoressa, con la ben nota forza del suo pensiero lei saprà certamente spiegare il messaggio che l’università in Italia può essere salvata solo se questo problema sarà risolto.
La ringraziamo in anticipo per la sua comprensione e sostegno.

RITA CLEMENTI , LEONARDO BARGIGLI , SILVIA SABBIONI .

(1) Questa lettera è stata firmata da 776 ricercatori precari in Italia o all’estero. La lista completa è disponibile come Materiale di supporto online su www.sciencemag.org/cgi/content/full/319/5870/1615a/DC1.


Risposta

CONOSCO BENE LA SITUAZIONE PRECARIA in Italia dei ricercatori universitari con un contratto temporaneo di lavoro. Durante l’approvazione della legge finanziaria per il 2008, ho sostenuto delle misure per la stabilizzazione di chi lavora con contratti temporanei. Sebbene il governo non è stato in grado di investire fortemente su questo capitolo di spesa, la legge finanziaria ha stanziato fondi per ridurre il lavoro instabile.
Spero che il nuovo governo sarà capace di superare questo problema duraturo ed io assicuro anche il mio continuo sostegno durante la prossima legislatura.

RITA LEVI MONTALCINI
Presidente dell’Istituto Europeo di Ricerca sul Cervello, Via del Fosso di Fiorano 64, 00143 Roma.

giovedì 27 marzo 2008

La medica in erba

La medica in erba
Tra il Mille e il 1200 sono le donne a detenere i segreti delle piante medicinali. Il caso di Trotula, la «matrona» che seppe trasformare in sapere l’esperienza delle levatrici.
di Ilaria Bonaccorsi

Varcato l’anno Mille nasce, o meglio si fa largo, un pensiero “nuovo” nei confronti delle herbarie, le cultrici di erbe medicinali. Fino al XIII secolo, e più precisamente sino alla fondazione dell’Università di Parigi, le donne medico, nelle campagne come nelle nuove città, rappresentano un fenomeno molto importante: curano, dispensano rimedi, vegliano su feriti e malati.
La Chiesa di Roma, in modo lento ma costante, matura il pensiero che questo «fare del bene, essere benefiche potesse essere cambiato nel potere di fare del male, di essere malefiche». Esplode, cioè, nel secondo millennio l’idea di una pericolosità insita nel “fare” delle herbarie, che diventano streghe, fattucchiere dannose contro le quali scatenare le reazioni più violente.
Questo è tanto più strano se si pensa che nei secoli dell’alto medioevo troviamo che nei testi delle leggi romano-barbariche l’herbaria - letteralmente la raccoglitrice, l’esperta di erbe, colei che viveva nelle campagne e che si serviva delle sue conoscenze botaniche - era la curatrice. Ed è interessante notare che nelle fonti viene utilizzato il sostantivo femminile e mai quello maschile.
Era dunque noto, e ben accetto, il fatto che le donne dispensassero “cure”, sebbene già nel 572 d.C. (nel Concilio Bracarense II) la Chiesa denuncia la pratica sacrilega di «incantare herbas», e si inizia a trovare nelle fonti il sospetto che queste producessero «pocula avorsionis» (pozioni “abortive”), così come Cesario di Arles accenna all’esistenza di «sacrilega medicamenta». Si tratta dunque dei primi, ma modesti, tentativi della Chiesa di controllare delle pratiche mediche precristiane.
Contemporaneamente, nell’editto dell’anno 643 del re longobardo Rotari, è scritto: «Nessuno ardisca uccidere come strega o masca un’ancella». Nel concilio di Padeborn del 785 si invoca la pena di morte per chi «ingannato dal demonio, bruci …donne reputandole streghe» e nel 900 Reginone di Prüm, vescovo di Worms, nel suo Canon Episcopi, circa le cavalcate femminili notturne al seguito di Diana, consiglia tutt’al più «di allontanare le povere illuse».
Nei primi secoli cristiani, in una società impoverita allo stremo, provata da una continua instabilità, dominata dalla violenza e dalla paura, sopravvive dunque una medicina “bassa” o “povera”, legata alla prassi, esercitata nella gran parte dalle erbarie.
Per secoli non si fa strada quel pensiero di diffidenza, di paura, di pericolosità per cui «se avevano il potere di fare del bene, di curare, avevano altresì quello di essere malefiche, di fare il male». Questo pensiero “nuovo” contribuirà in modo massiccio a relegare queste guaritrici in un mondo di illegalità e di magia. Mondo che dal XIII secolo le consegnerà ai roghi dei primi Tribunali dell’Inquisizione istituiti da Gregorio IX a partire dal 1231.
Cosa ha prodotto questo stravolgimento del pensiero di una “pratica medica” benevola in una generica malvagità esercitata in particolare dalle donne? È squisitamente una questione di potere? Ripercorriamo alcuni episodi significativi. C’è un campo in cui per tutto il medioevo le donne dominano incontrastate: l’ostetricia e la ginecologia. Nel Trecento Guy de Chauliac affermerà di non trattare la ginecologia nelle sue opere «perché medichesse ne detengono ampiamente l’esercizio». La morale vietava agli uomini di effettuare visite ginecologiche, la ricerca medica maschile in questo campo restò, fino al tardo medioevo, sostanzialmente teorica. Al contrario, le levatrici dei primi secoli si erano distinte per un’attività esclusivamente pratica. Trasmettevano le loro conoscenze alle più giovani, apprendiste o aiutanti, soprattutto attraverso la prassi, senza aver bisogno di patenti o diplomi.
Più tardi l’esperienza si trasforma: si fonde ad una nuova riflessione teorica, questo grazie alla circolazione di traduzioni di opere greche e arabe. A partire dal XIII secolo i trattati di medicina faranno riferimento al taglio cesareo. Tale pratica era appannaggio esclusivo delle ostetriche. Questi sono gli anni in cui compare un trattato fondamentale di medicina, il Liber Trotulae, preziosa testimonianza della “scientizzazione” di una pratica medica femminile antichissima. Si è scritto molto di Trotula e delle Mulieres Salernitanae, le Dame di Salerno. Ma vale la pena ricordare che la scuola di Salerno, da un’associazione di medici praticanti, era diventata il primo centro di medicina non controllato dalla Chiesa. Le prime testimonianze storiche certe risalgono all’inizio del IX secolo, le donne vi studiavano e vi insegnavano. Verso la fine dell’XI secolo con Costantino l’Africano si organizzò una vera e propria università, la prima forse che produsse una sua letteratura medica. Trotula, discendente dell’antico casato dei De Ruggiero, vi andò ad insegnare medicina, chirurgia ed ostetricia insieme al marito - anch’esso medico - Giovanni Plateario con cui lavorò al manuale di medicina noto col nome di Practica Brevis. Di Trotula fa cenno Orderico Vitale: «Nell’anno 1059 Rodolfo cognominato Mala-Corona venne in Utica…studiò con molta cura le lettere… ebbe altresì cognizioni tanto estese delle cose fisiche, che, nella città di Salerno, ove sin dai tempi più antichi si avevano le migliori scuole di medici, eccetto una sapiente matrona, non trovò alcun altro che avesse potuto stargli a paragone». Questa matrona è la medichessa Trotula. Le sue conoscenze mediche furono eccezionali: fece nuove scoperte nel campo dell’ostetricia e delle malattie sessuali, cercò nuovi metodi per rendere il parto meno doloroso e per il controllo delle nascite, reintrodusse in campo ostetrico il sostegno perineale. Si occupò del problema dell’infertilità, cercandone le cause non solo nelle donne, ma anche negli uomini, in contrasto totale con le teorie mediche dell’epoca. La sua trattazione è straordinaria per il tempo perché per la prima volta si parla di argomenti ginecologici senza accenti moralistici. Una prassi medica legata molto probabilmente al “bisogno” comincia invece a trasformarsi in riflessione teorica, in conoscenza.
Trotula rimane l’esempio più forte nei secoli del medioevo della donna colta, introdotta ai classici della medicina, ma capace di trasformare in sapere l’esperienza secolare delle levatrici di tradizione locale, saracena o longobarda. Non solo Trotula, ovviamente, ma anche Ildegarda di Bingen conosciuta per i suoi due trattati di medicina: il Liber simplicis medicinae e il Liber compositae medicinae, Monna Agnese e le sue compagne e più avanti Rebecca Guarna.
Alla fine del secolo XI la pratica delle donne nel campo della medicina e della ginecologia, riconosciuta e diffusa nelle campagne, trova spazio nelle nuove scuole in città. Questo passaggio deve aver spaventato. Già nel XIII secolo si decise di regolamentare e istituzionalizzare la professione medica concedendo patenti o diplomi per l’esercizio. Le nuove università, prima fra tutte Parigi (nata all’incirca tra il 1205 ed il 1208), riservarono l’accesso alla nuova facoltà di medicina ai soli uomini. La nuova università parigina, nata da una rivendicazione di libertà per sottrarsi alla tutela del vescovo di Parigi, finirà invece per essere controllata dal clero secolare. Nei primi decenni del 1300 le donne che praticano medicina sono conosciute solamente per i processi intentati contro di loro dall’università di Parigi, la quale esige un diploma che esse non possono esibire.
In Italia il divieto non sarà mai ufficialmente promulgato: qualche varco era consentito sia per donne allieve sia per operatori manuali di entrambi i sessi. La laurea in chirurgia che il duca Carlo di Calabria conferì a Francesca, moglie di Matteo Romano, nel 1321, rappresenta una rara eccezione.
La facoltà di medicina di Parigi tentò contro ogni sensata argomentazione di impedire alle donne persino la “pratica” della medicina, inaugurando vere e proprie persecuzioni contro le donne-medico. Qui nacque per prima la Corporazione del mestiere che aveva il monopolio dell’esercizio sul territorio della città. Qui nel 1322 fu denunciata e processata Jacoba Felicie de Alemanna, donna medico di circa trent’anni, perché operava senza poter esibire un diploma che non le era concesso di ottenere. Jacoba applicava le cure che da secoli rientravano nella pratica medica: esame accurato delle urine e del polso, palpazione delle membra, osservazione al modo di fisici e medici, cura delle ulcere, piaghe e malattie interne. La facoltà la diffidò, pena una pesante multa e la scomunica. Jacoba provò a difendersi ma non ottenne giustizia benché molti, uomini e donne, avessero testimoniato di esser stati curati e guariti da lei. Jacoba vide respingersi il ricorso perché non approbata dalla facoltà. L’esercizio da parte di una persona non approbata è usurpazione indebita e illecita, nonché peccato mortale per la Chiesa.
Molte nel XIII e poi nel XIV secolo sono le emule di Jacoba: è certo, per esempio, che Luigi IX, Luigi il Santo e Margherita di Provenza si portarono dietro alla crociata una donna medico di nome Hersent. Ed è noto che lo stesso divieto colpì due note donne chirurgo: l’ebrea Johanna Belota e Margarete di Ipra.
Quella che inizialmente sembra una cacciata si trasforma in caccia e vede unirsi progressivamente le autorità ecclesiastiche a quelle secolari. Le donne medico vengono accusate e processate con l’accusa di esercitare pratiche magiche.
Qui si evidenzia una svolta nell’atteggiamento del tempo nei riguardi delle donne, o del potere che queste potevano detenere. Un potere legato ad un sapere che la Chiesa non può controllare, di cui non è madre. Pratiche mediche fuori dal suo controllo che iniziavano a produrre libero pensiero, conoscenza. Questi sono i secoli della lotta feroce che la Chiesa condusse contro le eresie, contro chiunque la pensasse diversamente. Se oltre alla prassi emergeva anche un pensiero questo diventava pericoloso perché non conosciuto e diverso.
A conferma di tutto ciò solo un secolo dopo Sprenger e Institor, autori del famoso Martello delle streghe, scriveranno «nessuno nuoce alla fede cattolica più delle ostetriche». Ogni medichessa può essere operatrice di magia, mediatrice del Demonio: «dovrà ritenersi strega la persona che libera da maleficii e guarisce da malattie senza conoscere la medicina». La donna che cura senza essere approbata è messa al rogo.
Il 1400 si apre e si chiude con i processi dei Tribunali d’Inquisizione, tra i quali quello a Matteuccia Francisci da Todi (1428), una guaritrice di campagna esperta in erbe e rimedi, bruciata viva dopo essere stata condotta sul luogo dell’esecuzione a cavallo di un asino, le mani legate e in testa una mitra.
Nel Livres des Métiers (scritto a Parigi tra il 1254 e il 1271) si erano elencati soltanto sei mestieri unicamente femminili su un centinaio: filatrice di seta, tessitrice di copricapo di seta, lavorante di tessuto di seta, confezionatrice di cappelli d’aurifrisia o scarselle saracene. Mestieri di lusso per i quali ci vogliono “mani di fata”.

Pubblicato su left, n° 26, 7 luglio 2006

La medica in erba

è donna ed è opera del demonio

E' donna ed è opera del demonio
Dal divorzio all’aborto ai nuovi diritti della persona. Un percorso accidentato e faticoso in Italia

di Ilaria Bonaccorsi e Romina Parodi


Forse il 1974 rappresenta la rottura, la chiave di volta per lo Stato italiano, dalla quale ripartire separandosi da un passato oramai superato. Questo è l’anno della grande spallata ai tabù del divorzio e dell’aborto. Prima, indimenticabili, i movimenti del ’68 che avevano fatto della libertà, e in particolare di quella sessuale, «il cavallo più bello della battaglia». Ma questo non spiega tutto. Vale allora la pena di indagare a ritroso nel tempo per capire quando e come la libertà sessuale, che implica alla sua base il riconoscimento di una libertà e identità dei singoli di scegliere chi, come e per quanto tempo amare un altro essere umano, sia divenuta un diritto sancito e riconosciuto dallo Stato. Non possiamo dire dalla Chiesa perché ad oggi continua a non riconoscerlo.
Tagliando fuori importanti secoli di storia, basta risalire al Malleus Maleficarum (il famoso “Martello delle streghe”, vero e proprio manuale di caccia alle streghe scritto nel 1486 da due frati domenicani) per capire quale sia stata la concezione di sessualità, neanche di libertà sessuale, della Chiesa.
È donna. Ed è opera del demonio.
Le autorità secolari in quegli anni divennero mere esecutrici delle condanne dei tribunali ecclesiastici. Esecutrici materiali dei roghi nel nome di uno slogan oramai famoso che diceva: “La Chiesa non uccide, dà la vita”. La Chiesa condannava, il potere secolare bruciava.
Unica sessualità, che poco aveva a che fare con questa, venne ingabbiata in un rigidissimo concetto di famiglia. Tutte le relazioni al di fuori del matrimonio furono criminalizzate, ma mentre per gli uomini si trattava di lievi colpe morali, per le donne, oltre al marchio per tutta la vita del disonore, la punizione fu subito materia di diritto penale.
Il XV secolo appare quindi dolorosamente segnato da una rinnovata e ossessiva sorveglianza delle abitudini sessuali (in particolare delle donne) che si tradusse in una rigida istituzionalizzazione della famiglia, ottimo strumento di controllo. Tutto ciò che è fuori da questa è peccato. Mortale per le donne, di lì a poco perseguite e bruciate perché operatrici del demonio.
Dobbiamo arrivare alla Rivoluzione francese per assistere finalmente a quello che potremmo definire “un ribaltamento totale”, o almeno a un serio tentativo in questo senso. In quella tornata di anni lo Stato introdusse con forza non solo una nuova parità giuridica tra uomo e donna ma anche il divorzio. Lo sforzo, dunque, di laicizzare lo Stato portava con sé alcuni elementi ineludibili, come quelli della libertà e dell’uguaglianza di tutti gli esseri umani.
Ma si trattò di una brevissima parentesi.
Nel 1804, infatti, il Codice napoleonico, pur recependo gran parte dei principi della legislazione rivoluzionaria, sancì nuovamente l’ineguaglianza della donna e riaffermò l’unità della famiglia fondata sul principio di autorità. Fu mantenuto il divorzio, ma ridotto a casi eccezionali, come l’adulterio.
Gli storici, non a torto, considerano quel Codice l’opera più duratura di Napoleone e questo giustificherebbe la battuta d’arresto nel campo delle libertà. In particolare in Italia dove il Code Napoléon ha ispirato la successiva codificazione del 1865 (a breve distanza dall’unità politico-amministrativa) e che per la maggior parte dei suoi aspetti è alla base del Regio decreto del 1942, ossia dell’attuale, vigente, codice civile.
Di pari passo tristemente va la Chiesa. Lo dimostra l’attuale e feroce battaglia condotta contro “la rovina della famiglia” e cioè il riconoscimento dei Dico o Pacs che dir si voglia.
La Chiesa continua a non riconoscere e a non accettare alcun’altra forma di vincolo “affettivo” se non quella sancita tra un uomo e una donna dal matrimonio religioso. Neanche da quello civile. Ed ancora oggi la Chiesa e il suo rappresentante massimo, Benedetto XVI, sono alla testa della più tenace e oramai secolare opposizione a tutto ciò che è rapporti prematrimoniali, contraccezione, interruzione di gravidanza, procreazione assistita, omosessualità. A tutto ciò che svincola i “rapporti sessuali” dal “per tutta la vita” e dalla riproduzione biologica, o forse meglio dalla “riproduzione biologica per tutta la vita”. La Chiesa nei secoli non ha mai arretrato. Crede fortemente che la cura delle anime si debba fare innanzitutto dentro la camera da letto di ogni suo fedele, difendendo a spada tratta la famiglia tradizionale. Qualsiasi rapporto sessuale non finalizzato alla procreazione, specie se in vase indebito (in un orifizio illecito) è ancora oggi peccato mortale, e sino a non molti secoli fa era punito con il rogo.
Non è il luogo e non rappresenterebbe qui una novità il dilungarsi su questa -così potremmo definirla - matrice sessuofobica della Chiesa. Possiamo solo annusare che evidentemente il nocciolo della questione è proprio lì.
Altrettanto non si può dire per lo Stato. La domanda alla quale dovremmo tentare di rispondere è: quand’è che lo Stato si è posto il problema di tutelare la libertà sessuale? O ancora: quando e come lo Stato ha pensato di dover uscire dalla camera da letto degli uomini e delle donne, e forse di più, di dover proteggere la loro libertà in primo luogo perché “dimensione privata”? Se volessimo azzardare una data, diremmo il 12 maggio del 1974, il giorno in cui gli italiani sancirono che a fondamento della famiglia dovesse esserci una libera scelta di giorno in giorno rinnovata e non una imposizione statuale. E dunque la legge sul divorzio non doveva essere abrogata.
Importante quella data anche perché alla vittoria contribuirono milioni di elettori cattolici che votarono in contrasto con le indicazioni del Vaticano. All’approvazione referendaria seguirono subito nuove conquiste civili così che in pochi anni si realizzò una profonda trasformazione culturale, sociale ma anche politica. Del 1975 è la riforma del diritto di famiglia che sancì l’eguaglianza giuridica tra i coniugi. Nel 1978 fu ammessa e regolamentata dal legislatore l’interruzione volontaria di gravidanza. Nel 1987 fu migliorata la disciplina sul divorzio (ammettendo la richiesta dopo solo tre anni di separazione). Negli anni ‘88 e ‘89 alcune importanti sentenze della Corte costituzionale intervennero sul tema della famiglia di fatto, ammettendo ad esempio che il convivente more uxorio potesse, in caso di morte del conduttore, succedere nel contratto di locazione.
La cosa forse più singolare di questa tornata di anni è che per la prima volta di fronte al profondo mutare dei comportamenti sociali degli italiani si rispose con uno sforzo politico, ma anche della giurisprudenza e del legislatore tutto teso ad adeguare la normativa a nuove esigenze umane.
Oggi, purtroppo, non possiamo dire altrettanto. Qualcosa si è rotto nel delicato processo di adeguamento del sistema normativo alla realtà civile e sociale. E il passaggio mancante è quello politico, come ha messo in evidenza il fallimento del referendum sulla fecondazione assistita. La ricerca e le mutazioni sociali si susseguono: si assiste al progressivo superamento da parte delle coppie del modello tradizionale e costituzionale di famiglia fondata sul matrimonio. Emergono nuove idee, movimenti che producono valori, nuovi principi legati alla maternità e paternità responsabile e non più all’imperativo categorico della riproduzione biologica.
Tutto ciò richiederebbe non solo tutela dei diritti individuali e un nuovo welfare ma anzitutto una nuova cultura politica.
Di fronte a tanto cambiamento umano e sociale, i timidi progetti di legge che le istituzioni riescono a partorire nascono deboli e vengono facilmente ostacolati dalla Chiesa.
Ripartire dalla qualità delle relazioni affettive e dalla centralità degli uomini, delle donne e dei bambini potrebbe forse ricompattare l’elettorato, anche quello cattolico, nella battaglia per delle libertà umane e poi sociali oramai indispensabili.

Pubblicato su left, n° 24, 22 giugno 2007

Candidate al Comune e ai Municipi

venerdì 21 marzo 2008

mercoledì 19 marzo 2008