questo sito e di parte

giovedì 27 marzo 2008

è donna ed è opera del demonio

E' donna ed è opera del demonio
Dal divorzio all’aborto ai nuovi diritti della persona. Un percorso accidentato e faticoso in Italia

di Ilaria Bonaccorsi e Romina Parodi


Forse il 1974 rappresenta la rottura, la chiave di volta per lo Stato italiano, dalla quale ripartire separandosi da un passato oramai superato. Questo è l’anno della grande spallata ai tabù del divorzio e dell’aborto. Prima, indimenticabili, i movimenti del ’68 che avevano fatto della libertà, e in particolare di quella sessuale, «il cavallo più bello della battaglia». Ma questo non spiega tutto. Vale allora la pena di indagare a ritroso nel tempo per capire quando e come la libertà sessuale, che implica alla sua base il riconoscimento di una libertà e identità dei singoli di scegliere chi, come e per quanto tempo amare un altro essere umano, sia divenuta un diritto sancito e riconosciuto dallo Stato. Non possiamo dire dalla Chiesa perché ad oggi continua a non riconoscerlo.
Tagliando fuori importanti secoli di storia, basta risalire al Malleus Maleficarum (il famoso “Martello delle streghe”, vero e proprio manuale di caccia alle streghe scritto nel 1486 da due frati domenicani) per capire quale sia stata la concezione di sessualità, neanche di libertà sessuale, della Chiesa.
È donna. Ed è opera del demonio.
Le autorità secolari in quegli anni divennero mere esecutrici delle condanne dei tribunali ecclesiastici. Esecutrici materiali dei roghi nel nome di uno slogan oramai famoso che diceva: “La Chiesa non uccide, dà la vita”. La Chiesa condannava, il potere secolare bruciava.
Unica sessualità, che poco aveva a che fare con questa, venne ingabbiata in un rigidissimo concetto di famiglia. Tutte le relazioni al di fuori del matrimonio furono criminalizzate, ma mentre per gli uomini si trattava di lievi colpe morali, per le donne, oltre al marchio per tutta la vita del disonore, la punizione fu subito materia di diritto penale.
Il XV secolo appare quindi dolorosamente segnato da una rinnovata e ossessiva sorveglianza delle abitudini sessuali (in particolare delle donne) che si tradusse in una rigida istituzionalizzazione della famiglia, ottimo strumento di controllo. Tutto ciò che è fuori da questa è peccato. Mortale per le donne, di lì a poco perseguite e bruciate perché operatrici del demonio.
Dobbiamo arrivare alla Rivoluzione francese per assistere finalmente a quello che potremmo definire “un ribaltamento totale”, o almeno a un serio tentativo in questo senso. In quella tornata di anni lo Stato introdusse con forza non solo una nuova parità giuridica tra uomo e donna ma anche il divorzio. Lo sforzo, dunque, di laicizzare lo Stato portava con sé alcuni elementi ineludibili, come quelli della libertà e dell’uguaglianza di tutti gli esseri umani.
Ma si trattò di una brevissima parentesi.
Nel 1804, infatti, il Codice napoleonico, pur recependo gran parte dei principi della legislazione rivoluzionaria, sancì nuovamente l’ineguaglianza della donna e riaffermò l’unità della famiglia fondata sul principio di autorità. Fu mantenuto il divorzio, ma ridotto a casi eccezionali, come l’adulterio.
Gli storici, non a torto, considerano quel Codice l’opera più duratura di Napoleone e questo giustificherebbe la battuta d’arresto nel campo delle libertà. In particolare in Italia dove il Code Napoléon ha ispirato la successiva codificazione del 1865 (a breve distanza dall’unità politico-amministrativa) e che per la maggior parte dei suoi aspetti è alla base del Regio decreto del 1942, ossia dell’attuale, vigente, codice civile.
Di pari passo tristemente va la Chiesa. Lo dimostra l’attuale e feroce battaglia condotta contro “la rovina della famiglia” e cioè il riconoscimento dei Dico o Pacs che dir si voglia.
La Chiesa continua a non riconoscere e a non accettare alcun’altra forma di vincolo “affettivo” se non quella sancita tra un uomo e una donna dal matrimonio religioso. Neanche da quello civile. Ed ancora oggi la Chiesa e il suo rappresentante massimo, Benedetto XVI, sono alla testa della più tenace e oramai secolare opposizione a tutto ciò che è rapporti prematrimoniali, contraccezione, interruzione di gravidanza, procreazione assistita, omosessualità. A tutto ciò che svincola i “rapporti sessuali” dal “per tutta la vita” e dalla riproduzione biologica, o forse meglio dalla “riproduzione biologica per tutta la vita”. La Chiesa nei secoli non ha mai arretrato. Crede fortemente che la cura delle anime si debba fare innanzitutto dentro la camera da letto di ogni suo fedele, difendendo a spada tratta la famiglia tradizionale. Qualsiasi rapporto sessuale non finalizzato alla procreazione, specie se in vase indebito (in un orifizio illecito) è ancora oggi peccato mortale, e sino a non molti secoli fa era punito con il rogo.
Non è il luogo e non rappresenterebbe qui una novità il dilungarsi su questa -così potremmo definirla - matrice sessuofobica della Chiesa. Possiamo solo annusare che evidentemente il nocciolo della questione è proprio lì.
Altrettanto non si può dire per lo Stato. La domanda alla quale dovremmo tentare di rispondere è: quand’è che lo Stato si è posto il problema di tutelare la libertà sessuale? O ancora: quando e come lo Stato ha pensato di dover uscire dalla camera da letto degli uomini e delle donne, e forse di più, di dover proteggere la loro libertà in primo luogo perché “dimensione privata”? Se volessimo azzardare una data, diremmo il 12 maggio del 1974, il giorno in cui gli italiani sancirono che a fondamento della famiglia dovesse esserci una libera scelta di giorno in giorno rinnovata e non una imposizione statuale. E dunque la legge sul divorzio non doveva essere abrogata.
Importante quella data anche perché alla vittoria contribuirono milioni di elettori cattolici che votarono in contrasto con le indicazioni del Vaticano. All’approvazione referendaria seguirono subito nuove conquiste civili così che in pochi anni si realizzò una profonda trasformazione culturale, sociale ma anche politica. Del 1975 è la riforma del diritto di famiglia che sancì l’eguaglianza giuridica tra i coniugi. Nel 1978 fu ammessa e regolamentata dal legislatore l’interruzione volontaria di gravidanza. Nel 1987 fu migliorata la disciplina sul divorzio (ammettendo la richiesta dopo solo tre anni di separazione). Negli anni ‘88 e ‘89 alcune importanti sentenze della Corte costituzionale intervennero sul tema della famiglia di fatto, ammettendo ad esempio che il convivente more uxorio potesse, in caso di morte del conduttore, succedere nel contratto di locazione.
La cosa forse più singolare di questa tornata di anni è che per la prima volta di fronte al profondo mutare dei comportamenti sociali degli italiani si rispose con uno sforzo politico, ma anche della giurisprudenza e del legislatore tutto teso ad adeguare la normativa a nuove esigenze umane.
Oggi, purtroppo, non possiamo dire altrettanto. Qualcosa si è rotto nel delicato processo di adeguamento del sistema normativo alla realtà civile e sociale. E il passaggio mancante è quello politico, come ha messo in evidenza il fallimento del referendum sulla fecondazione assistita. La ricerca e le mutazioni sociali si susseguono: si assiste al progressivo superamento da parte delle coppie del modello tradizionale e costituzionale di famiglia fondata sul matrimonio. Emergono nuove idee, movimenti che producono valori, nuovi principi legati alla maternità e paternità responsabile e non più all’imperativo categorico della riproduzione biologica.
Tutto ciò richiederebbe non solo tutela dei diritti individuali e un nuovo welfare ma anzitutto una nuova cultura politica.
Di fronte a tanto cambiamento umano e sociale, i timidi progetti di legge che le istituzioni riescono a partorire nascono deboli e vengono facilmente ostacolati dalla Chiesa.
Ripartire dalla qualità delle relazioni affettive e dalla centralità degli uomini, delle donne e dei bambini potrebbe forse ricompattare l’elettorato, anche quello cattolico, nella battaglia per delle libertà umane e poi sociali oramai indispensabili.

Pubblicato su left, n° 24, 22 giugno 2007

1 commento:

Anonimo ha detto...

Tutti gli atti "in vase indebito" non sono peccato mortale ma veniale.