La medica in erba
Tra il Mille e il 1200 sono le donne a detenere i segreti delle piante medicinali. Il caso di Trotula, la «matrona» che seppe trasformare in sapere l’esperienza delle levatrici.
di Ilaria Bonaccorsi
Varcato l’anno Mille nasce, o meglio si fa largo, un pensiero “nuovo” nei confronti delle herbarie, le cultrici di erbe medicinali. Fino al XIII secolo, e più precisamente sino alla fondazione dell’Università di Parigi, le donne medico, nelle campagne come nelle nuove città, rappresentano un fenomeno molto importante: curano, dispensano rimedi, vegliano su feriti e malati.
La Chiesa di Roma, in modo lento ma costante, matura il pensiero che questo «fare del bene, essere benefiche potesse essere cambiato nel potere di fare del male, di essere malefiche». Esplode, cioè, nel secondo millennio l’idea di una pericolosità insita nel “fare” delle herbarie, che diventano streghe, fattucchiere dannose contro le quali scatenare le reazioni più violente.
Questo è tanto più strano se si pensa che nei secoli dell’alto medioevo troviamo che nei testi delle leggi romano-barbariche l’herbaria - letteralmente la raccoglitrice, l’esperta di erbe, colei che viveva nelle campagne e che si serviva delle sue conoscenze botaniche - era la curatrice. Ed è interessante notare che nelle fonti viene utilizzato il sostantivo femminile e mai quello maschile.
Era dunque noto, e ben accetto, il fatto che le donne dispensassero “cure”, sebbene già nel 572 d.C. (nel Concilio Bracarense II) la Chiesa denuncia la pratica sacrilega di «incantare herbas», e si inizia a trovare nelle fonti il sospetto che queste producessero «pocula avorsionis» (pozioni “abortive”), così come Cesario di Arles accenna all’esistenza di «sacrilega medicamenta». Si tratta dunque dei primi, ma modesti, tentativi della Chiesa di controllare delle pratiche mediche precristiane.
Contemporaneamente, nell’editto dell’anno 643 del re longobardo Rotari, è scritto: «Nessuno ardisca uccidere come strega o masca un’ancella». Nel concilio di Padeborn del 785 si invoca la pena di morte per chi «ingannato dal demonio, bruci …donne reputandole streghe» e nel 900 Reginone di Prüm, vescovo di Worms, nel suo Canon Episcopi, circa le cavalcate femminili notturne al seguito di Diana, consiglia tutt’al più «di allontanare le povere illuse».
Nei primi secoli cristiani, in una società impoverita allo stremo, provata da una continua instabilità, dominata dalla violenza e dalla paura, sopravvive dunque una medicina “bassa” o “povera”, legata alla prassi, esercitata nella gran parte dalle erbarie.
Per secoli non si fa strada quel pensiero di diffidenza, di paura, di pericolosità per cui «se avevano il potere di fare del bene, di curare, avevano altresì quello di essere malefiche, di fare il male». Questo pensiero “nuovo” contribuirà in modo massiccio a relegare queste guaritrici in un mondo di illegalità e di magia. Mondo che dal XIII secolo le consegnerà ai roghi dei primi Tribunali dell’Inquisizione istituiti da Gregorio IX a partire dal 1231.
Cosa ha prodotto questo stravolgimento del pensiero di una “pratica medica” benevola in una generica malvagità esercitata in particolare dalle donne? È squisitamente una questione di potere? Ripercorriamo alcuni episodi significativi. C’è un campo in cui per tutto il medioevo le donne dominano incontrastate: l’ostetricia e la ginecologia. Nel Trecento Guy de Chauliac affermerà di non trattare la ginecologia nelle sue opere «perché medichesse ne detengono ampiamente l’esercizio». La morale vietava agli uomini di effettuare visite ginecologiche, la ricerca medica maschile in questo campo restò, fino al tardo medioevo, sostanzialmente teorica. Al contrario, le levatrici dei primi secoli si erano distinte per un’attività esclusivamente pratica. Trasmettevano le loro conoscenze alle più giovani, apprendiste o aiutanti, soprattutto attraverso la prassi, senza aver bisogno di patenti o diplomi.
Più tardi l’esperienza si trasforma: si fonde ad una nuova riflessione teorica, questo grazie alla circolazione di traduzioni di opere greche e arabe. A partire dal XIII secolo i trattati di medicina faranno riferimento al taglio cesareo. Tale pratica era appannaggio esclusivo delle ostetriche. Questi sono gli anni in cui compare un trattato fondamentale di medicina, il Liber Trotulae, preziosa testimonianza della “scientizzazione” di una pratica medica femminile antichissima. Si è scritto molto di Trotula e delle Mulieres Salernitanae, le Dame di Salerno. Ma vale la pena ricordare che la scuola di Salerno, da un’associazione di medici praticanti, era diventata il primo centro di medicina non controllato dalla Chiesa. Le prime testimonianze storiche certe risalgono all’inizio del IX secolo, le donne vi studiavano e vi insegnavano. Verso la fine dell’XI secolo con Costantino l’Africano si organizzò una vera e propria università, la prima forse che produsse una sua letteratura medica. Trotula, discendente dell’antico casato dei De Ruggiero, vi andò ad insegnare medicina, chirurgia ed ostetricia insieme al marito - anch’esso medico - Giovanni Plateario con cui lavorò al manuale di medicina noto col nome di Practica Brevis. Di Trotula fa cenno Orderico Vitale: «Nell’anno 1059 Rodolfo cognominato Mala-Corona venne in Utica…studiò con molta cura le lettere… ebbe altresì cognizioni tanto estese delle cose fisiche, che, nella città di Salerno, ove sin dai tempi più antichi si avevano le migliori scuole di medici, eccetto una sapiente matrona, non trovò alcun altro che avesse potuto stargli a paragone». Questa matrona è la medichessa Trotula. Le sue conoscenze mediche furono eccezionali: fece nuove scoperte nel campo dell’ostetricia e delle malattie sessuali, cercò nuovi metodi per rendere il parto meno doloroso e per il controllo delle nascite, reintrodusse in campo ostetrico il sostegno perineale. Si occupò del problema dell’infertilità, cercandone le cause non solo nelle donne, ma anche negli uomini, in contrasto totale con le teorie mediche dell’epoca. La sua trattazione è straordinaria per il tempo perché per la prima volta si parla di argomenti ginecologici senza accenti moralistici. Una prassi medica legata molto probabilmente al “bisogno” comincia invece a trasformarsi in riflessione teorica, in conoscenza.
Trotula rimane l’esempio più forte nei secoli del medioevo della donna colta, introdotta ai classici della medicina, ma capace di trasformare in sapere l’esperienza secolare delle levatrici di tradizione locale, saracena o longobarda. Non solo Trotula, ovviamente, ma anche Ildegarda di Bingen conosciuta per i suoi due trattati di medicina: il Liber simplicis medicinae e il Liber compositae medicinae, Monna Agnese e le sue compagne e più avanti Rebecca Guarna.
Alla fine del secolo XI la pratica delle donne nel campo della medicina e della ginecologia, riconosciuta e diffusa nelle campagne, trova spazio nelle nuove scuole in città. Questo passaggio deve aver spaventato. Già nel XIII secolo si decise di regolamentare e istituzionalizzare la professione medica concedendo patenti o diplomi per l’esercizio. Le nuove università, prima fra tutte Parigi (nata all’incirca tra il 1205 ed il 1208), riservarono l’accesso alla nuova facoltà di medicina ai soli uomini. La nuova università parigina, nata da una rivendicazione di libertà per sottrarsi alla tutela del vescovo di Parigi, finirà invece per essere controllata dal clero secolare. Nei primi decenni del 1300 le donne che praticano medicina sono conosciute solamente per i processi intentati contro di loro dall’università di Parigi, la quale esige un diploma che esse non possono esibire.
In Italia il divieto non sarà mai ufficialmente promulgato: qualche varco era consentito sia per donne allieve sia per operatori manuali di entrambi i sessi. La laurea in chirurgia che il duca Carlo di Calabria conferì a Francesca, moglie di Matteo Romano, nel 1321, rappresenta una rara eccezione.
La facoltà di medicina di Parigi tentò contro ogni sensata argomentazione di impedire alle donne persino la “pratica” della medicina, inaugurando vere e proprie persecuzioni contro le donne-medico. Qui nacque per prima la Corporazione del mestiere che aveva il monopolio dell’esercizio sul territorio della città. Qui nel 1322 fu denunciata e processata Jacoba Felicie de Alemanna, donna medico di circa trent’anni, perché operava senza poter esibire un diploma che non le era concesso di ottenere. Jacoba applicava le cure che da secoli rientravano nella pratica medica: esame accurato delle urine e del polso, palpazione delle membra, osservazione al modo di fisici e medici, cura delle ulcere, piaghe e malattie interne. La facoltà la diffidò, pena una pesante multa e la scomunica. Jacoba provò a difendersi ma non ottenne giustizia benché molti, uomini e donne, avessero testimoniato di esser stati curati e guariti da lei. Jacoba vide respingersi il ricorso perché non approbata dalla facoltà. L’esercizio da parte di una persona non approbata è usurpazione indebita e illecita, nonché peccato mortale per la Chiesa.
Molte nel XIII e poi nel XIV secolo sono le emule di Jacoba: è certo, per esempio, che Luigi IX, Luigi il Santo e Margherita di Provenza si portarono dietro alla crociata una donna medico di nome Hersent. Ed è noto che lo stesso divieto colpì due note donne chirurgo: l’ebrea Johanna Belota e Margarete di Ipra.
Quella che inizialmente sembra una cacciata si trasforma in caccia e vede unirsi progressivamente le autorità ecclesiastiche a quelle secolari. Le donne medico vengono accusate e processate con l’accusa di esercitare pratiche magiche.
Qui si evidenzia una svolta nell’atteggiamento del tempo nei riguardi delle donne, o del potere che queste potevano detenere. Un potere legato ad un sapere che la Chiesa non può controllare, di cui non è madre. Pratiche mediche fuori dal suo controllo che iniziavano a produrre libero pensiero, conoscenza. Questi sono i secoli della lotta feroce che la Chiesa condusse contro le eresie, contro chiunque la pensasse diversamente. Se oltre alla prassi emergeva anche un pensiero questo diventava pericoloso perché non conosciuto e diverso.
A conferma di tutto ciò solo un secolo dopo Sprenger e Institor, autori del famoso Martello delle streghe, scriveranno «nessuno nuoce alla fede cattolica più delle ostetriche». Ogni medichessa può essere operatrice di magia, mediatrice del Demonio: «dovrà ritenersi strega la persona che libera da maleficii e guarisce da malattie senza conoscere la medicina». La donna che cura senza essere approbata è messa al rogo.
Il 1400 si apre e si chiude con i processi dei Tribunali d’Inquisizione, tra i quali quello a Matteuccia Francisci da Todi (1428), una guaritrice di campagna esperta in erbe e rimedi, bruciata viva dopo essere stata condotta sul luogo dell’esecuzione a cavallo di un asino, le mani legate e in testa una mitra.
Nel Livres des Métiers (scritto a Parigi tra il 1254 e il 1271) si erano elencati soltanto sei mestieri unicamente femminili su un centinaio: filatrice di seta, tessitrice di copricapo di seta, lavorante di tessuto di seta, confezionatrice di cappelli d’aurifrisia o scarselle saracene. Mestieri di lusso per i quali ci vogliono “mani di fata”.
Pubblicato su left, n° 26, 7 luglio 2006
giovedì 27 marzo 2008
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